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libera critica cinematografica

 
 
 
 
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Voti

Il voto del redattore

  • voto
  • 4/5
  • valutazione
  • Un altro bel film con qualche piccola pecca.
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Il voto dei lettori

  • voto medio
  • 3.4/5
  • numero votanti
  • Questo film è stato votato da 5 lettori
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Info

Soffio

di Kim Ki-duk

 
    Dati
  • Titolo originale: Soom
  • Soggetto: Kim Ki-duk
  • Sceneggiatura: Kim Ki-duk
  • Genere: Drammatico - Sentimentale
  • Durata: 84 min,
     
  • Nazionalità: Corea del Sud
  • Anno: 2007
  • Produzione: Cineclick Asia, Kim Ki-Duk Film, Sponge
  • Distribuzione: Mikado
  • Data di uscita: 31 08 2007
 
 
 
 
 
 
 
 
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Recensione

Le quattro stagioni coreane

di Sara Troilo


Presentato al festival di Cannes, Soffio finalmente approda nelle sale italiane per regalarci l'opportunità di seguire il percorso del suo regista Kim Ki-duk, uomo dalle mille risorse e dalle mille esperienze, capace di realizzare ogni volta film profondamente nuovi, lontani sia dai suoi precedenti che da ogni modello cinematografico. Questa e' la storia di una donna, Yeon, che vive in una casa ordinata quanto gelida con il marito e la figlia e scopre che il marito la tradisce, celandolo anche malamente. Questa scoperta la porta ad allontanarsi dalla famiglia per tentare di avvicinarsi a un perfetto sconosciuto, Jin, detenuto nel braccio della morte di una prigione e aspirante suicida (meglio far da se' in certe circostanze). Sulle prime l'uomo non capisce questo interesse da parte della donna, mentre chi apprezza fin da subito questa misteriosa quanto eccentrica presenza femminile, e' il direttore del carcere di cui vediamo solo il riflesso nello schermo attraverso cui monitora tutta la prigione. Dal chiuso della casa in cui la donna trascorreva la gran parte del tempo prima di accorgersi del tradimento, la scena si sposta all'esterno, nel rigido inverno che sulla pelle di Yeon passa senza farsi sentire, impegnata com'è a far sperimentare l'illusione di ogni stagione al proprio amato rinchiuso in carcere.


Essendo davanti a un'opera di Kim Ki-duk la trama non puo' destare alcuno stupore, o meglio, lo desta come al solito e in cio' si esaurisce la sorpresa. Quello che emerge sempre nei lavori del regista coreano e' invece una fisicità molto forte, il suo utilizzare la macchina da presa come fosse lo strumento di uno sculture o di un chirurgo plastico. Gioco scoperto questa volta, tanto piu' che il direttore del carcere (che guarda caso coincide con il direttore del film) e' colui che permette o meno ai fatti di avvenire. Si deve infatti alla sua intercessione il primo ingresso di Yeon in carcere, a lui si devono le trasformazioni della saletta dei colloqui, al suo dire "si', te lo concedo", alla sua curiosita', al suo saper apprezzare le doti artistiche e umane della donna che, una volta fatto il vuoto intorno a se', decide di dedicarsi in toto al detenuto che sta per morire per scelta del suo governo che cosi' ha deciso di punirlo a causa del crimine orrendo di cui si e' macchiato. Siamo dunque di fronte all'onnipotenza del regista che vede tutto e interviene su cio' che sta vedendo e che contrasta con l'impotenza degli individui che non sono capaci nemmeno di mantenere le promesse, che soprattutto non sono in grado di comunicare decentemente. E se il tentativo di rompere la routine e di trasgredire da parte della donna si limita al lanciare dalla finestra la camicia candida del marito, allora tanto vale seguire il proprio istinto fino al limite, rompere i patti e dedicarsi al proprio intento per conquistare l'onnipotenza.


In questo film un po' discontinuo e non sempre all'altezza del regista, lo schermo si illumina durante le performance artistiche della protagonista: di gran lunga le parti migliori di tutta la pellicola. Destabilizzanti e luminose, le scene di canto e di danza di Yeon accompagnate da scenografie cosi' smaccatamente finte da essere perfette, assolute (nel senso di sciolte dal contesto) e stranianti, non sono facili da dimenticare e sono impossibili da ritrovare in altri film. Fresche e immediate, le canzoncine stagionali di Yeon sortiscono sugli spettatori il medesimo effetto del teatrino di burattini sui bambini parigini de I 400 colpi, dopo qualche risatina imbarazzata la meraviglia vince e ci si lascia trasportare in questo incanto fatto di carta da parati e radio portatile. E la sovrabbondanza di immagini sulle pareti della sala colloqui fa risaltare ancora piu' il vuoto totale della cella senza letti dove i quattro detenuti di notte dormono l'uno sopra l'altro e di giorno quasi non si rivolgono la parola, impegnati a costruirsi uno spazio proprio in mezzo al nulla. Pare che la lotta per la sopravvivenza del singolo sia intessuta proprio sulla sua capacita' di avere intorno a se' uno spazio che lo contenga. Quando la casa ordinatissima di Yeon viene minata dal tradimento del marito, la donna tenta disperatamente di trovare un posto alternativo dove poter amare qualcuno. E gli strumenti che decide di usare sono tanto artefatti quanto lo e' la sua decisione di innamorarsi di un tizio di cui ha sentito parlare al telegiornale. Un atto di denuncia, uno scontro frontale con il marito che le si volge contro, comunque e di nuovo un atto disperato dove la comunicazione e' impossibile perche' nessuno parla e l'insensatezza degli atti compiuti si innalza a creazione artistica pop, a composizione scultorea animata, ad happening bello e buono.


Inoltrandosi nel pericoloso quanto affascinante percorso della metafora e del simbolo, si potrebbe restarne invischiati. I piani di lettura di quest'opera sono molteplici, dalla prigionia che unisce Jin a Yeon, nonostante la donna non abbia commesso alcun delitto, al rapporto di coppia usurato e reso solo parvenza, teatrino sterile (o fertile, ancora peggio) che va mantenuto in nome di una altrettanto usurata apparenza sociale, la stessa che alla donna sposata era in ogni caso negata. E l'amore, la vicinanza umana, il calore, sono solo miraggi per tutti i personaggi che non a caso vivono la propria storia d'inverno e dentro stanze spoglie che non trasmettono per nulla un senso di accoglienza. Unico momento di calore sono solo e sempre i colloqui nel carcere, attimi scanditi dalla brevita' della visita e dalla finzione di cui sono costruiti. Attimi in cui la vita e' sospesa e i baci tolgono il respiro (Breath e' il titolo inglese del film).


Eppure c'e' qualcosa che manca e che non ci soddisfa appieno come invece era successo per il bellissimo Ferro 3 e forse si deve alla fretta con cui il regista ha realizzato questo film per cui si parla addirittura di giorni. Gli incontri tra la donna e il detenuto non hanno niente in tutto il film che li eguagli, la loro passione diventata ingestibile (ma una passione gestibile non esiste nemmeno) infiamma tutta la pellicola e il freddo che la circonda e' un buon elemento di stacco molto netto. Ma solo contorno e' tutto il resto e il dislivello si sente, pur nella bellezza dell'insieme.

 
 
 
 
 
 
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