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libera critica cinematografica

 
 
 
 
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Locandina
 
 
 
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Trama

Mark è tossicodipendente, gay e dedito al sesso occasionale. Dopo un'overdose, il fratello maggiore lo convince a trasferirsi in una comunità cristiana dell'Arizona (la Genesis House) che promette di guarire dall'omosessualità tramite la fede. Tra queste mura conosce Scott, suo mentore: la loro iniziale amicizia sfocerà in una storia d'amore.

 
 
 
 
 
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Voti

Il voto del redattore

  • voto
  • 3.5/5
  • valutazione
  • Uno sguardo insolito su una problematica, quella del tentativo di conversione (detta anche guarigione) dei gay, veramente insopportabile.
  •  
 
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Il voto dei lettori

  • voto medio
  • senza voto
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Info

Save me

di Robert Cary

 
    Dati
  • Titolo originale: Save me
  • Soggetto: Craig Chester, Alan Hines
  • Sceneggiatura: Robert Desiderio
  • Genere: Drammatico - Sociale
  • Durata: 96 min.
     
  • Nazionalità: USA
  • Anno: 2007
  • Produzione:
  • Distribuzione:
  • Data di uscita: 28 02 2011
 
 
 
 
 
 
 
 
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Recensione

Non fare piangere Gesù, diventa etero.

di Sara Troilo

Save me è un film del 2007 diretto da Robert Cary, è stato presentato al Sundance Film Festival, ma in Italia non è mai stato distribuito. Per fortuna si può vedere su queerframe portale dedicato al cinema d'autore LGBT. Il progetto è di Atlantide Entertainment che con Queerframe vuole dare visibilità a film mai distribuiti in Italia, film dimenticati o di difficile fruizione, viaggi nel passato e proposte innovative, come viene spiegato nel sito. Nella sezione "come funziona" le semplici spiegazioni che consentono di accedere al materiale di Queerframe.

Siamo nella provincia americana, location di innumerevoli puntate di X-files in cui tra le mura domestiche accadevano gli eventi più turpi, quelle incantevoli cittadine in cui fioriscono i Jesus Camp, veri e propri laboratori di lavaggio del cervello operato su bambine e bambini, patria del tea party etc. etc. Mark (Chad Allen) è un ragazzo gay che viene ricoverato in ospedale dopo un’overdose, suo fratello decide di provare a riportarlo sulla retta via (proprio quella straight) facendolo “internare” nella Genesis House, casa di recupero per uomini omosessuali. Come ci dice il nome, questa struttura a conduzione famigliare ha l’ambizione di curare i gay a suon di preghiere e con un percorso fatto di passi attraverso i quali i ragazzi devono imparare a compiacere gli altri, non creare problemi alle famiglie, mettere da parte ogni tentazione o velleità di seguire la propria inclinazione/natura/tendenza di dare retta al cuore/amore.

La struttura è gestita da una coppia eterosessuale e fondamentalista cattolica (o per lo meno cristiana, non mi interessa approfondire le sfumature della religione che sta alla base) dove Gayle (Judith Light), spinta dal desiderio di colmare il vuoto lasciato dal proprio figlio, fa la parte del leone e passa la vita spronando i ragazzi gay a pregaree uscire con le ragazze. Mark, dopo un momento di netto rifiuto della vita in comunità dove tutti cantano, pregano e vanno a messa insieme, si integra nella piccola schiera di ragazzi, legando in particolare con Scott (Robert Gant), inviso a Gayle che l’ha sempre visto come il noto lupo travestito da agnello.

Non v’è traccia di punizioni, costrizioni, fustigazioni nella Genesis House, dove le pareti sono dipinte a colori pastello e il prato circonda la casa, nessuno ti urla in faccia quanto fai schifo, ma al contrario, ognuno ti vuole bene e ti dà un’opportunità di guarigione. Il ricatto messo in atto da queste allucinanti comunità è chiaro: se ti comporti da bravo eterosessuale nessuno avrà più da ridire, il mondo tornerà ad accoglierti e, prima di lui, Dio stesso. Cosa volere di più? Forse l’amore? Ma la spinta a compiacere è forte, soprattutto se tuo padre è in fin di vita e ti accusa di ogni suo male (è il caso di Scott) o se dipendi in tutto e per tutto da un fratello che ti disprezza (come Mark) o se ti senti solo al mondo e vivi nella speranza che qualcuno ti dimostri che l’amore è giusto a prescindere che sia etero o gay (come la bella figura del compagno di stanza di Mark), ma nel frattempo tiri a campare nell’unico luogo dove ti senti un po’ amato.

Il problema è che quello di Gayle è un amore posticcio perché vale solo a determinate regole, Gayle ti ama se tu la smetti di amare e desiderare gli uomini perché Dio non vuole. Il dubbio che questo Dio davvero non voglia viene a Scott che dopo aver fatto di tutto per farsi perdonare dal padre, capisce che lo sbaglio non la sta commettendo lui ed esce da quella sorta di trance in cui era caduto. Ovviamente a svegliarlo è la relazione con Mark.

Il punto di vista del regista mette in luce le contraddizioni di Gayle e di suo marito senza mai giudicare, ma scegliendo di far prendere man mano coscienza anche allo spettatore. Molto bello lo sguardo sulla modalità del compiacere, perno della cosiddetta buona educazione, sempiterna trappola per donne costrette a dire di sì per non dispiacere. Questa volta la compiacenza è utilizzata per tentare di fregare i gay, senza raffinatezze, ma con l’arma profondamente ricattatoria del “qui dentro sei accettato da tutti, ma fuori come te la caverai?”. Quello che emerge non è un punto di vista laico, ma l’affermazione perentoria della possibilità di essere gay e credenti, gay e cristiani o cattolici, perché allontanarsi da Gayle non è allontanarsi da Dio, ma da un’interpretazione alla lettera della Bibbia a dir poco ridicola. La presa di coscienza è quella del credente che si allontana da chi non lo accetta per quello che è portandosi dietro Dio.

Non semplice star dietro a questo sguardo che risulta inedito a chi, come me, non ha la minima inclinazione alla fede, come non è così scontato accettare di vedere anche in questo Save me che le più grandi oppositrici ai figli gay siano le madri. Mi viene in mente Prayers for Bobby film molto diverso da questo, ma con alla base la medesima follia della madre invasata di religione. Difficile perché, pur conoscendo la profonda differenza tra credo personale e religione, andare incontro a ciò che ci rifiuta pare sempre assurdo e masochista. La bravura del regista sta anche nel mantenere la mano leggera sul finale, lasciandoci spettatori delle scelte personali di ognuno concedendoci la possibilità di guardare come si comporta chi fa scelte diverse dalle nostre e quando dico diverse intendo scelte di fede.
 
 
 
 
 
 
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