
Questa è la storia di una donna che si può nascondere tranquillamente dietro il tronco di un albero nemmeno grosso. La storia del suo innamoramento. Questa è la storia di un uomo che non riesce a trovare una donna di cui innamorarsi, o trova la testa o trova il corpo. Questa storia ce la racconta
Matteo Garrone; se c'è qualcuno convinto che il cinema italiano sia privo di autori è meglio che si ricordi il suo nome perché si dovrà ricredere. Vittorio (
Vitaliano Trevisan, scrittore e coautore della sceneggiatura) è attratto esclusivamente da anoressiche, ma tutte quelle che ha incontrato non lo hanno mai stimolato mentalmente, cambia strategia quando incontra Sonia (
Michela Cescon) e decide di fare il percorso inverso: partire dalla mente per forgiare il corpo. Lo stesso
Garrone percorre il percorso inverso rispetto a quello del meraviglioso
L'imbalsamatore, là l'artigiano toglieva le viscere degli animali, li svuotava per mantenere sempre uguale a se stesso il corpo in modo che niente lo cambiasse mai, qui l'orafo tenta di arrivare all'essenza assottigliando l'involucro, Vittorio ripete ossessivamente che ciò che conta lo scopri solo togliendo, eliminando tutto ciò che essenziale non è, bruciando emerge l'oro e Vittorio cerca l'oro nelle donne, vuole che gli

si manifesti, è evidente che le donne in sé non sono oro. Le location dei due film citati sono anche opposte, ne
L'imbalsamatore faceva bella mostra di sé la Napoli dei palazzinari, l'orrida periferia senza trucchi né belletti; in
Primo amore a fare da cornice ai soprusi c'è una casa circondata da un bosco, un posto bellissimo. Invece tornano i dialoghi per nulla cinematografici, essenziali e spiazzanti per quanto sono veri e privi della minima traccia sia di retorica che di luoghi comuni, dialoghi che utilizzano quella specie particolare di parole che non sentiremo mai provenire dalla bocca di una Morante, per dirne una. Niente scuola di dizione, niente arcaismi e niente di già sentito in tutta la produzione italiana, un lavoro molto accurato che vale tutto il tempo speso. Tra i più belli di sicuro ci sono quelli tra Vittorio e il suo psichiatra, degni della nouvelle vague, scarni ed essenziali, forti e mai caricati di emotività, assecondati dalla resa visiva che li incornicia con porte e delimitazioni architettoniche di spazi, ponendo un netto confine tra i due personaggi a suggerire l'impossibilità di un contatto. Troppo facile a questo punto sarebbe parlare di incomunicabilità, qui c'è molto di più, ci sono incontri di frustrazioni e interazioni malate, ma ben teorizzate, lontane dallo "svitato che

ha le fisse"; senza didascalie e confidando nell'intelligenza dello spettatore,
Garrone ancora una volta dimostra di vincere stringendo questo patto di complicità con chi guarda senza trattarlo come un imbecille da prendere per mano ogni volta che attraversa la strada anche se non arriva nessuno né da destra né da sinistra. Stessa delicatezza nel commento sonoro, la Banda Osiris, vincitrice dell'Orso d'argento nell'edizione 2004 del Festival di Berlino, non poteva supportare meglio un film denso come quello di
Garrone.
L'essenza, si diceva, quella dei dialoghi e delle riprese, quella dello stile recitativo, del tocco alchemico del regista che dipinge i propri personaggi (sia
L'imbalsamatore Ernesto Mahieux che l'orafo
Vitaliano Trevisan) come

appassionati ricercatori della perfezione nel lavoro e nella vita privata. Estendere l'arte alla vita porta i due a non considerare la differenza tra materiali inerti e persone e quindi a perdere il contatto con la realtà. L'unico modo per creare essere umani è esserne il genitore, l'unico modo per creare fisicamente un altro essere umano è esserne la madre, ma la riproduzione in tutti e due film si esclude a priori, nell'uno perché si tratta di amore tra due uomini e in Primo amore perché Vittorio toglie a Sonia ogni possibilità di diventare madre conducendola nella direzione opposta, alla sterilità. Senza arrivare alla svolta freudiana, Peppino (
Ernesto Mahieux) e Vittorio hanno un sogno e lo perseguono.
Matteo Garrone non ha bisogno di metterci il pathos e noi spettatori non abbiamo bisogno che nessuno ci spieghi niente. L'idillio, insomma, o solo il lavoro di un grande autore.