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Rubrica del 05 07 2006

 
 
 
 
 
 
 
 
 
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Rubrica

Quello che i documentari non dicono

di Nicola Tedeschi

 

Premessa: Caimano (Paleosuchus palpebrosus)


Ama mimetizzarsi, il caimano, nascondersi tra la vegetazione in habitat umidi e oscuri, tra l'acqua e la terra, al limitare tra ombra e luce, dove più facilmente può crescere senza pericoli. È la specie più piccola di coccodrillo, ma al tempo stesso è anche quella con la corazza ossea dorsale e ventrale più spessa: per poter sopravvivere e prosperare ha dovuto potenziare le sue difese. Dotato di una stretta poderosa, non lascia scampo alle sue prede; è doveroso tenersi sempre al di fuori della portata della sua bocca e soprattutto rispettare il suo territorio.  Il caimano attacca infatti senza indugio quando viene invaso il suo spazio vitale. È un carnivoro opportunista, che si nutre di qualsiasi cosa gli venga proposta. E vive soltanto in Sudamerica, il caimano.


Tra le molteplici ed efficaci "metafore naturali" che il mondo animale propone, quella del caimano appare subito una delle più pregnanti e agevolmente utilizzabili: così perspicua e nitida da risultare facilmente comprensibile, pienamente rappresentabile. Non può sorprendere pertanto che l'immagine del "Caimano" cinematografico sia stata immediatamente assimilata e fatta propria dal linguaggio quotidiano, che sia entrata a far parte del gioco linguistico della vita sociale in generale e della dimensione politica in particolare; che sia assurta rapidamente al centro dell'immaginario collettivo. Di più, che sia stata avallata e orgogliosamente rivendicata dall'uomo stesso per il quale tale immagine è stata concepita e portata sullo schermo, in una sorta di surreale quanto emblematica autoinvestitura. E tale operazione, a ben vedere, è tanto più spregiudicata - e in questo senso da vero "caimano" - in quanto tende ad oscurare la valenza semantica generale del termine, pensato certamente per un soggetto determinato, ma destinata nelle intenzioni del suo autore a rappresentare per estensione ogni forma di condotta, politica e non, eticamente scorretta, strumentalmente predatoria, artatamente opaca e poco o per nulla controllabile e limitabile.

Il Caimano non riconosce altra legge che quella che lo favorisce, non conosce altre regole che quelle che esso stesso stabilisce; considera il mondo esterno alla stregua del suo paludoso territorio, che costantemente tenta di ampliare a scapito di altre specie meno "attrezzate". Si intuisce facilmente come parlare del Caimano, descriverne le mosse, spiarne i comportamenti, carpirne i segreti, sia quindi estremamente pericoloso. Soprattutto per chi si trova alle prese con la sua prima esperienza sul campo o per chi, nel passato, ha studiato e osservato una fauna ben diversa, formata da specie del tutto innocue, da forme di vita inoffensive. Un gioco rischioso avere a che fare con il Caimano, in cui nessuno viene in aiuto, tutti si chiamano fuori e ci si trova soli; ma anche un'esperienza nuova ed affascinante, che vale la pena condurre a termine, contro ogni ostacolo.

Questo deve pensare Bruno (un isterico Silvio Orlando, istrionico e mattatore), uno sgangherato produttore cinematografico in croniche e pesanti difficoltà economiche per l'ennesimo fallimento del ennesimo film "trash" da lui finanziato (intitolato "Cateratte", un improbabile mix di simil horror a basso costo e film politico con velleità "alternative") quando si trova tra le mani la sceneggiatura di un film intitolato "Il Caimano", scritta da Teresa (Jasmine Trinca), una giovane aspirante regista, idealista e pura, determinata nel proporre la sua storia.  Una storia interessante e ben scritta, ma gravata da un plateale e in apparenza imperdonabile "peccato originale": l'essere incentrata sull'ascesa inarrestabile quanto piena di ombre e ambiguità di Silvio Berlusconi, l'uomo più ricco d'Italia, il potente tra i potenti, Innominabile e Perturbante al tempo stesso, protagonista assoluto della scena politica nazionale dell'ultimo decennio. Questa l'idea di fondo del nuovo film di Nanni Moretti: e sin dal suo incipit è evidente la metastruttura narrativa che sarà la cifra stilistica dell'intera pellicola. Un film che parla di un altro film e delle difficoltà nel realizzarlo; ma che è a ben vedere autoreferenziale, in quanto non parla che di se stesso, della sua genesi così problematica, della complessità del raccontare la realtà nella sua attualità scomoda e inquietante.

Non la pura e semplice "storia di Silvio Berlusconi" quindi, ma l'epopea del "Caimano" in quanto metafora di ogni rappresentazione del reale che sia scomoda e problematica, di ogni ricerca di verità che abbia a fronteggiare altre verità di segno contrario, o semplicemente la verità prodotta da ogni propaganda, per cui ciò che viene creduto vero è semplicemente la versione dei fatti di chi dispone dei mezzi economici e di comunicazione per imporre la propria versione dei medesimi. Di fronte a chi racconta i fatti c'è sempre qualcuno che può "fabbricare" i fatti, biografo di se stesso, storico della propria stessa storia.  Assistendo alla vicenda imprenditoriale e politica del Caimano viene in mente la profezia di Guy Debord, che già negli anni '60 preconizzava il sorgere e l'affermarsi di una "società dello spettacolo" in cui tra l'altro, con un ardito e insidioso rovesciamento dialettico, il "vero" sarebbe divenuto un "movimento del falso" e giudicato in base ai criteri proposti da quest'ultimo: la mistificazione agiografica e mediatica come solo paradigma di verità.

Ecco quindi che all'ossessivo interrogativo che ricorre nella sceneggiatura del "Caimano" (la domanda, riferita a Berlusconi: "dove ha preso tutti quei soldi ?"), la risposta non sia mai univoca o agevole, di fronte alla muraglia apologetica e ideologica che viene eretta dal Caimano stesso e propalata incessantemente dalla sua "macchina da guerra" mediatica, potente e perfettamente organizzata. Magneticamente attratto, finanche catodicamente ipnotizzato, da tale questione fondamentale, lo spettatore tende talvolta a dimenticare che la finalità primaria di Moretti è e rimane quella di "fare cinema" (emblematica a tale riguardo la valenza simbolica insita nell'utilizzo di alcuni registi italiani, da Sorrentino a Virzì a De Capitani, in ruoli secondari), e che in parallelo alla difficoltosa lavorazione del "Caimano" si assiste alla vicenda personale di Bruno, tormentato dalla sofferta e mal digerita separazione dalla moglie Paola, sua compagna, madre dei suoi figli e sua "musa" artistica. Irretito da tali dinamiche, Bruno pare in fondo poco interessato dalle sorti del film in lavorazione e alieno da un reale interesse per la situazione politica; in un'esilarante scena lo si vede gridare che lui Berlusconi lo ha pure votato.

Anche tra le aporie affettive dei protagonisti e le loro difficoltà a ridare slancio ed entusiasmo a relazioni logorate e stagnanti, le riprese del "Caimano" comunque proseguono, come se una forza invisibile e misteriosa avesse ogni volta buon gioco sulle situazioni di stallo e sulle defezioni di attori e collaboratori. La storia di Silvio Berlusconi, sembra dire Moretti, deve essere raccontata, come quella di ogni "Caimano", ovunque esso sia, in qualunque campo esso agisca. L'alternativa è il silenzio, e il silenzio è sinonimo di sconfitta contro chi in silenzio, ma protetto da una incessante coltre di rumori, suoni e immagini, ha costruito la propria potenza. Lo scoramento di Bruno, così come l'abbandono della "star" del film (un Michele Placido perfetto nell'impersonare un attore ipocrita e profittatore, pronto ad abbandonare il set per andare a girare un film più remunerativo e meno rischioso) e la necessità di ricorrere a una fonte di finanziamento straniera (un produttore polacco, magistralmente impersonato da Jerzy Stuhr, anch'egli noto regista), sono altrettante immagini della decadenza e degli eterni vizi di un'Italia pavida e senza ideali forti, in cui la speranza e l'ottimismo paiono lussi riservati a pochi privilegiati, e l'insicurezza e la disillusione sono la cifra prevalente. Un'Italia in gran parte appiattita sulla banalità della televisione, rassegnata alla prevalenza dei furbi e dei potenti in ogni campo della società civile.

In quest'ottica storico-antropologica Silvio il "Caimano" -sembra dire Moretti- è soltanto la manifestazione parossistica, l'immagine più eclatante ma non isolata, di uno scenario degradato e amorale, su cui riflettere e intervenire, risvegliando le coscienze e repuperando una reale dimensione etica, sempre che ciò sia ancora possibile. Il "Caimano" prospera e aumenta la sua potenza non tanto per la sua intrinseca natura quanto perché ha trovato un habitat a lui favorevole e condizioni propizie, sfruttando al meglio tali precondizioni ambientali: senza una palude di connivenze politiche, corruzione e complicità il Caimano non sarebbe forse esistito. Il film sul Caimano riesce, sia pure parzialmente, a vedere la luce, e nella scena finale, così come sceneggiata dalla giovane autrice, si vede un Silvio Berlusconi al culmine della sua potenza (e ora impersonato dallo stesso Moretti) costretto tuttavia a rendere conto davanti ad un Tribunale su quell'interrogativo più volte riecheggiato: "Dove ha preso tutti quei soldi ?". Ma si avverte in questo epilogo un avvertimento evidente: il Caimano, contrastato, ferito e costretto alla lotta, è ancora più determinato e pugnace, risoluto a difendere con ogni mezzo il suo spazio vitale. E quando si sente Moretti dichiarare in una recente intervista che il suo film è da considerare pura "fiction" e che è del tutto casuale che i fatti recenti lo abbiano reso attuale e "realistico", si fa fatica a credergli del tutto. E non si può fare a meno di pensare che della "realtà romanzesca" cui abbiamo assistito e ancora assistiamo quasi quotidianamente in ambito politico e sociale sarebbe senza dubbio salutare e auspicabile fare a meno.

L'epilogo, drammatico e iperbolico, è fittizio ma lascia comunque sconcertati e perplessi: la sola idea che in una società moderna e democratica un solo uomo sia così potente e in grado di esercitare la sua forza in modo spregiudicato e finanche eversivo, può e deve far riflettere, al di là delle convinzioni politiche di ciascuno. La dimensione etica, più che la mera coordinata politica, interessano qui principalmente Moretti: l'idea più volte evocata è che ci sia bisogno di una palingenesi morale delle persone, a maggior ragione se chiamate ad alte cariche istituzionali, unitamente alla necessità di una nuova "etica della responsabilità" ad ogni livello della società civile. Moretti centra con precisione questo obiettivo, proponendo un film di ottima fattura, duro ma ironico, che diverte e induce a riflettere senza concedere sconti alle idee ed alle dinamiche che condanna e rigetta. Ci sono momenti di ottimo cinema, altri meno efficaci e non privi di una certa scontata retorica, ma la sceneggiatura complessivamente convince e il cast è all'altezza.

Qualcuno, con motivazioni pretestuose e al limite del grottesco, lo ha fatto soggiacere alla "par condicio" televisiva, atteggiamento insensato e per certi aspetti incredibile; che dimostra peraltro, se mai ve ne fosse stato bisogno, come qualcosa di anomalo nell'attuale situazione italiana esista concretamente, e vada emendato. Non è difficile unirsi idealmente alla posizione di Moretti: alla palude del "Caimano" continuiamo a preferire il Cinema, quello che emoziona, scuote, stimola il pensiero, il dialogo, la vera dialettca attorno ai temi che stanno a cuore a tutti. Sembra giusto chiudere con le parole dello stesso Moretti: "La mia ambizione non è quella di realizzare un film per far cambiare idea agli elettori di Berlusconi, né per rassicurare un certo tipo di pubblico di sinistra nelle proprie certezze. Sia come regista, sia come spettatore, infatti, non amo i film di questo tipo. Al contrario spero che Il Caimano possa semplicemente suscitare dei dubbi".  E ancora: "Non ho voluto fare un film su Berlusconi, quanto piuttosto una commedia".

È comunque poco consolante pensare che da oltre un decennio stiamo assistendo ad una commedia, della quale noi stessi siamo al tempo stesso attori e spettatori.


 
 
 
 
 
 
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