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Speciale

MedFilm Festival '04 - Seconda giornata

di Laura De Gregorio

Il piovoso pomeriggio di ieri è cominciato qui al MedFilm Festival con la proiezione al Capranica di Anita and me per la Rassegna Euromediterraneo, regia di Metin Huseyin, produzione indiana-inglese. Anita, tipica bella biondina inglese, è la nuova arrivata a Tollington e sconvolge i già precari equilibri della vita di Meena. In una realtà provinciale basta poco a scatenare il putiferio, soprattutto se una robusta presenza indiana mal si sposa con i locali. Anita e Meena hanno un rapporto di amore e odio che certo dipende anche dalle loro famiglie atipiche. La contrastata amicizia delle due adolescenti avrà risvolti imprevedibili. Sia in questo caso che a proposito del razzismo in città, il film sorvola sull'approfondimento psicologico: attraverso un montaggio convulso e trovate bizzarre, fa una carrellata piena zeppa di dialoghi, personaggi di contorno e commedia degli equivoci senza fornire particolari spiegazioni, in una giustapposizione degli eventi un po' superficiale anche se indubbiamente comica. In effetti Anita and me ha la forma, l'ambientazione e le tipizzazioni della tradizione comica britannica unite agli impareggiabili colori del cinema indiano.
Il film ripropone un modello ormai collaudato che comunque funziona bene con gag di pura comicità e complicazioni dell'intreccio davvero divertenti, c'è quella buona dose di curry che fa la differenza. Il risultato è una ricetta stravagante dove trova spazio persino la musica italiana: Volare versione orientaleggiante, in una scatenata festa di matrimonio. Con le sue impennate surreali, strane apparizioni di Kabir Bedi in un bosco con una specie di tempietto indiano, con il suo ritmo frizzante e dei soggetti che sono comici anche senza aprire bocca, Anita and me ti trascina in un crescendo che non sai bene dove ti porterà. Sotto sotto c'è una venatura triste, c'è Meena che cerca un angolo di pace per scrivere il suo diario segreto che è tutto il suo mondo e resta allibita come noi nel guardare questo delirio di gruppo. I suoi grandi occhi neri sono l'esclusivo punto di vista sulla storia. Se si riesce a cogliere solo l'aspetto ludico del racconto, Anita and me ha il pregevole merito di una festosa e caleidoscopica rappresentazione collettiva. Il grande evento mondano del giorno è stato però il Summit mondiale dei Premi Nobel per la Pace che si è tenuto in serata presso Villa Medici alla presenza di Richard Peduzzi, direttore dell'Accademia di Francia, Ginella Vocca, Presidente del MedFilm Festival e dei Premi Nobel Partecipanti. Durante la cerimonia ufficiale che ha visto sfilare un nutrito numero di rappresentanti istituzionali, delegazioni diplomatiche e intellettuali internazionali, è stato consegnato il Premio per la Pace "Amore e Psiche 2004" all'Organizzazione Medici senza Frontiere.
Ho potuto parlare con Ginella Vocca che pur indaffaratissima si è gentilmente fermata con me per un attimo. Mi ha confessato che non è attratta dalle mondanità per cui si è limitata alla consegna del premio ed è corsa nella Sala Michel Piccoli al termine del film in programma. Quando mi ha espresso la sua gioia nell'essere lì con noi, non ho fatto fatica a crederle perché la sua grande semplicità e l'abnegazione al suo lavoro mi hanno dato la sensazione che quello fosse il posto in cui è completamente a suo agio perché svincolata da obblighi formali esprime liberamente il valore dell'iniziativa, manifesta apertamente la dedizione che le infonde senza stancarsi mai di condividere con gioia ed orgoglio la bellezza di questi film che sostiene uno per uno.

Angels dont'fly over Casablanca, film per la sezione Mediterraneo in Concorso che parallelamente al Summit era in programma a Villa Medici. Il lungometraggio firmato dal marocchino Mohamed Asli Asli e prodotto anche dalla Gam Film (particolare importante perché ne rende certa, anche se non meglio precisata, la distribuzione italiana) è un saggio di bravura stilistica se si pensa che è un'opera prima. Diretto con mano ferma e delicata, Angels dont'fly over Casablanca racconta in parallelo la vita di una famiglia divisa: Aicha si trova in uno sperduto villaggio di montagna con tutta la famiglia del marito che invece lavora come cameriere in un ristorante di Casablanca. La loro storia d'amore non può che essere epistolare, il filo sottile delle loro lettere corre dalle distese innevate dell'entroterra alla frenetica realtà metropolitana. Il regista ricorre ad un espediente ben riuscito per coinvolgere lo spettatore nel dramma di Aicha e Said, vittime di una lontananza forzata: il ponte sonoro scavalla più di una volta le parole dell'uno sulle immagini della vita dell'altra e viceversa intensificando il senso di perdita, inasprendo le distanze e al contempo moltiplicando il tentativo di comprendersi, di cercarsi e finalmente di ritrovarsi. Un procedimento analogo è impiegato anche nel caso di un altro personaggio, le cui vicende si intersecano con quelle di Said. Anche qui il ponte sonoro ha una funzione chiave anche se con sfumature diverse, prende la direzione di casa ma non arriva fin laggiù ripetendo le parole di Othman - quasi tutte per il suo amato cavallo - nella corsa del pullman attraverso la città. In entrambi i casi comunque il sonoro veicola e reitera speranze e raccomandazioni, attese e rimpianti con la nostalgia che solo gli emigranti conoscono. Singolare trovata stilistica è che nella scena suddetta si scoprono le strade di Casablanca dal punto di vista del sacco sul portapacchi. La velocità del pullman si somma all' accelerazione della ripresa per enfatizzare il brulicante traffico cittadino. Più volte il regista impiega variazioni del genere (compreso il ralenty) e anche panoramiche velocissime a 360° gradi per stigmatizzare l'inarrestabile ritmo di una metropoli. In effetti Casablanca è quanto mai lontana da una pittoresca oleografia poiché viene colta nella sua dimensione più dinamica. Splendide le musiche e il taglio delle immagini, le riprese. Scopriamo i colori, la povertà, i contrasti di Casablanca a bordo di un taxi improvvisato, a cavallo della bicicletta di Said, tra le piroette impossibili del vassoio di Ismail, il terzo protagonista del film. Anche lui fa il cameriere, anche lui insegue un desiderio forse meno nobile dell'amore per una donna o per un cavallo, ma ugualmente profondo, più a portata di mano ma lontano in concreto. In Angels dont'fly over Casablanca c'è la dura ed emblematica storia degli emigranti: sarà merito del regista che ha ben strutturato anche la sceneggiatura e bravura attoriale, è comunque impossibile sfuggire alla riflessione sociale che questo film senza pretestuose polemiche ma con finissima sensibilità impone ben al di là dei confini marocchini agli occhi dell'Occidente. In tal senso, Angels dont'fly over Casablanca è il film (tra quelli che ho visto fin qui) che meglio incarna lo spirito del Festival. Il silenzio in sala seguito da un lungo applauso ne è la riprova. Said, Othman e Ismail: tre volti che feriscono e commuovono, tre sogni infranti perché gli angeli non volano su Casablanca.
 
 
 
 
 
 
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