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Speciale del 08 09 2006

 
 
 
 
 
 
 
 
 
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Speciale

NFF 2006

di Lucio Carbonelli

Cronaca semi-dada di un Film Festival chiamato Napule.

(05-11/06/2006)

C'è un romanzo dello scrittore surrealista francese André Breton, un romanzo chiamato Nadja, in cui i personaggi quando vanno al cinema ne usufruiscono in una maniera assai peculiare: entrano ed escono dalle sale a piacimento, guardando solo spezzoni di film, pochi minuti, mai un film intero, saltando da un genere all'altro, arrivando a spostarsi addirittura di cinema in cinema, tutto questo perché i surrealisti erano persone che andavano alla ricerca di quello che poteva essere considerato un vero e proprio "sogno". Immagini viste e assimilate alla rinfusa, senza nessun particolare ordine logico se non quello dato dal caso: ecco un diverso modo di andare al Cinema che oggi è andato completamente perduto, se mai è esistito al di là del romanzo poi! E questo fatto è paradossale, considerando tutti i multi-sala/plex sorti nelle periferie delle grandi metropoli in cui viviamo: certo verrebbe a mancare la dimensione urbana della passeggiata (quindi nuovi stimoli!) alla ricerca di una nuova sala di proiezione, ma oggigiorno sarebbe molto più semplice saltabeccare da un film all'altro, da un genere all'altro, e le possibilità di costruirsi una propria onirica esperienza aumenterebbero vertiginosamente… se solo la maschera di turno non ci invitasse ad abbandonare la sala una volta finito il film. Un biglietto, un film: è la legge. «Sì, e allora?», si chiederanno a questo punto i fedeli lettori di Cineboom; «Cos'è tutto questo sproloquio?», e pure avete ragione a chiedervelo. Andate più su allora, a rileggervi il titolo di questo maldestro tentativo di pezzo giornalistico: "dada" è la parola chiave. Grazie a Cineboom io, Lucio Carbonelli, modesto (modestissimo!) blogger truffautore, ho avuto l'occasione di provare il brivido dell'accredito stampa e, tornato bambino (da-da… da-da…), ho passato 7giorni7 chiuso in un multisala, sette giorni di visioni selvagge libero di entrare e uscire da ogni sala, tutte le porte si aprivano per me, ormai quelli dello staff del Warner Village di Via Chiaia (approfitto per salutarli: ciao!) avevano fatto l'abitudine alla faccia di uno sfaccendato come me che arrivava lì verso le 10 di mattina, massimo le 11, e se ne tornava a casa, stanco ma contento, verso le 20-20.30, ma talvolta anche verso le 23-24, complice il fratello minore che lo andava a prendere. Alla faccia dello scrocco! Cineboom, ti amo! Il tutto si è svolto dal quattro di giugno fino all'undici, e io che pensavo fosse difficile e faticoso (noioso?!) seguire 4-5 film di seguito… ma poi ci ho preso gusto e ne volevo sempre di più. Ritirato accredito e relativo catalogo (naturalmente a pagamento, per i comuni mortali) in un hotel parecchio chic, io coi jeans stracciati sotto le scarpe, c'è voluto giusto un attimo a capire come si sarebbero svolti i miei successivi giorni da disoccupato. Svegliatomi la mattina presto, verso le sette, manco il tempo di lavarmi e di andare in bagno (è capitato) che, mangiato un biscotto e bevuto un caffè, si era già in metrò e funicolare (funiculì funiculà, recita il vecchio adagio) col solo ausilio del proprio iPod (è in casi come questi che si capisce l'utilità delle cose superflue), alla volta della mia giornata filmica: mentre la metro/funicolare in questione era piena zeppa di profumate ragazze pancia in fuori allevate alla scuola di Cicciopanzo e consorte Filippo dirette à la plage, il cinefilo nascosto sotto le mentite spoglie di cineredattore web e (quasi) giornalista pubblicista si avviava a immergersi nel buio della sala con barba lunga e occhi ancora impiastricciati dalle immagini del giorno prima, saltando da un film all'altro, spesso già iniziato… eh sì, dura la vita. Ritornato a casa solo otto-dieci ore dopo, arricchito da minimo tre film ma con solo una misera frittatina (o pizzetta) nello stomaco, avrei trovato la casella mail intasata dai comunicati dell'ufficio stampa del festival nel caso avessi dimenticato qualcosa. Che cari. Ma ciancio alle bande, passiamo al festival! Se troverete queste parole troppo confuse, cercate di perdonarmi… è che talvolta si scriveva al buio!

Di ciò di cui non si può parlare si dovrebbe tacere.

(05/06/2006)

Primo giorno del Napoli Film Festival. Sono un po' in ritardo, ma non fa niente; sebbene sia sempre interessante ascoltare un regista parlare di sé e del suo lavoro, Paolo Sorrentino mi sta sufficientemente antipatico per non rimpiangerlo più di tanto. Così passo all'ufficio stampa per ritirare il pass, e poi entro nel cinema con una buona mezzora di ritardo. Mi avvio per i corridoi del multisala e la prima persona che vedo è proprio il buon Sorrentino, seduto su certi scalini e impegnato in quella che sembra essere un'intervista al volo. Appena arrivo io l'intervista finisce e il regista vomerese (ndr: il Vomero sarebbe il quartiere "chic" di Napoli) si avvia verso la sala deputata alla sua "lezione di cinema"; sì perché, incredibile a credersi, sono anche loro in ritardo, lo stesso mio ritardo, nemmeno avessi voluto farlo apposta. Avranno voluto aspettarmi perché sono troppo importante? Comunque la buona notizia è che non verrà proiettato uno dei due (tre) film di Sorrentino che io ho già visto e che seppur apprezzabili ritengo troppo, mia modestissima opinione, pretenziosi e narcisisti; a Sorrentino non va di rivederli e così ha scelto Roma (Italia/Francia, 1972) del grande Federico Fellini. Il film è un affresco visionario della Roma del tempo (o no?) di Fellini, una Roma che agli occhi del regista andava già perdendo una bellezza pura e primigenia per avviarsi sulla strada della, come dire, decadenza: esemplare da questo punto di vista è la scena degli affreschi sotterranei che intaccati dall'aria esterna vanno disfacendosi e morendo. Una Roma perfetta per aspettare la fine del mondo, come sottolinea un estemporaneo Gore Vidal incontrato "per caso" al tavolino di un bar. Figuriamoci se il maestro vedesse il mondo di oggi, allora! Il film comunque è strano e non so nemmeno se si possa definire proprio film, sembra un documentario sceneggiato più che altro, con una sceneggiatura ridotta al minimo comunque: come se si andasse in giro per una città e si cercasse di prendere quello che si può. Piccola nota di sfortuna: in una sala riempita da centinaia di studenti (lì solo per mettere la firma ovviamente, mica per altro) il vostro cineredattore è seduto proprio vicino all'unico fesso schiamazzante, vabbè. Dopo la visione del film c'è il fatidico dibattito che si trascina stanco e inutile soprattutto a causa di un apatico e palesemente annoiato Sorrentino. Grazie ai soliti cinefili ghezziani (che Dio li abbia sempre in gloria!) con le loro solite domande qualcosa di buono ci esce però, intendendo con "buono" qualcosa su cui sghignazzare sopra naturalmente. Sollecitato per quanto riguarda l'uso della musica nei suoi film, il nostro dice di preferire la musica elettronica (ndr: ottima per fare videoclip come la scena dell'auto ne Le conseguenze dell'amore, certo) e aggiunge - citando il povero Truffaut - che il jazz, non ne parliamo proprio, lo odia nei film, finendo poi per impapocchiarsi lui solo quando un ragazzo dalla platea gli ricorda un certo Woody Allen… Per non parlare di un certo Louis Malle che fece musicare il proprio Ascensore per il patibolo da un musicista jazz qualunque chiamato Miles Davis, avrebbe aggiunto il vostro cineredattore preferito se non fosse stato troppo timido per intervenire. Sorrentino, non contento, si contraddice ancora, prima criticando la videoarte (che a suo parere per volere essere troppo originale finisce infine per non dire nulla) e poi deplorando il fatto che i film di oggi non hanno il coraggio di essere originali come quelli di Fellini; e, ancora, prima rammaricandosi del fatto che i film piccoli vengono subito smontati dalle sale perché incalzati dallo Spider Man (peraltro film bellissimi quelli dell'uomo ragno, eh!) di turno e poi desiderando tanto avere per i suoi film il pubblico natalizio?!?! Bah, chi lo capisce a questo Sorrentino è bravo. Il simpatico regista pieno di sorprese conclude dicendo che non gli si possono chiedere proprio a lui consigli per il mestiere di regista (e dire che è anche uno dei docenti di un corso di sceneggiatura qui a Napoli…) perché lui è stato solo molto molto fortunato e poi, se proprio deve dire una cosa, lui consiglia di essere cocciuti, non scoraggiarsi mai, ecco, per fare cinema bisogna avere una buona dose di "ottusità" (ipse dixit). Adesso sì, che si spiega tutto. La giornata continua e si chiude con la visione di due film in concorso per la "sezione EuroMed": Qui e Lì (Marocco/Francia, 2005) di Ismail Mohamed, e La radio (Italia/Gran Bretagna, 2004) di David Sordella. Il primo ci racconta dell'impossibile ritorno al paese d'origine di una famiglia marocchina emigrata in Francia: "ritorno impossibile", perché? Perché il mondo cambia e certe possibilità pare non potranno mai esserci in un paese che rimane ancora disperatamente arretrato, questo il padre non vuole accettarlo, per lui sono inconcepibili certi moderni costumi occidentali adottati dai suoi figli… Ma come fare a segregarli in una terra arretrata? Impossibile, appunto. Chi vince tra due culture che si scontrano? Non quella più moderna, ma quella meno arretrata probabilmente… Il secondo è un film strano, dal budget bassissimo probabilmente, fatto di soli tre attori e della loro interazione assai "teatrale". È un film fatto "in famiglia", opprimente, due fratelli e una sorellastra, una storia fatta di fantasmi e segreti che non riescono a essere sepolti per sempre. L'inizio è pesante, forse troppo dilatato, e il disvelamento della vicenda - anche se sorprendente - alfine troppo brusco, e con certi elementi artificiosi che disturbano, eppure questo è un film che si fa apprezzare soprattutto per l'incredibile bravura dell'attrice principale: una bellissima Barbora Bobulova. Un film da vedere e da supportare, anche se sicuramente imperfetto.

Sguardi diversi, terre lontane e straniamento.

(06/06/2006)

Anche il secondo giorno del Napoli Film Festival parte in ritardo, come parte in ritardo qualsiasi cosa abbia a che fare con l'università (italiana); infatti gli incontri fatti a prima mattina - "Parole di Cinema" - sono organizzati da un prof universitario appunto, e la platea è perlopiù composta da studenti: prima della proiezione del film bisogna mettere la firma per dimostrare di aver seguito la lezione, e così la proiezione inevitabilmente slitta di una buona mezzora. L'ospite di questa mattina è Ugo Gregoretti, ovvero la mitica "G" finale del film a episodi Ro.Go.Pa.G., e anche il film (suo) proiettato questa mattina è un film a episodi, come si era soliti fare negli anni '60, per risparmiare, spiega il regista stesso. Il film si chiama Le belle famiglie (Italia/Francia, 1964), e il tema declinato è appunto quello della famiglia, il registro è soprattutto ironico, se non grottesco; insomma questo è un film comico, tanto è vero che nell'ultimo episodio, in quella che sarà una delle sue ultime apparizioni su grande schermo, fa la sua comparsa anche Totò. Oltre a lui i protagonisti dell'episodio in questione sono un piuttosto giovane Jean Rochefort (nella parte di un fantino malato che - ironia della sorte - non può non ricordare la sfortunata lavorazione del film - rimasto purtroppo incompiuto - di Terry Gilliam su Don Chisciotte) e un'ancora piacente Sandra Milo nella parte di una donna che riesce ad amare (giulivamente come solo Sandrocchia avrebbe potuto fare) solo amanti malati e/o moribondi; poi c'è un episodio che parla di teutoniche coppie aperte e relativo scandalo da parte di un playboy nostrano colpito nell'onore, un episodio che - incredibile per l'epoca - parla di un amore omosessuale, e infine il primo episodio (forse proprio il più divertente) che ci mostra una "piccola meridionale bastonata" interpretata magistralmente da una sognante ed esilarante Anne Girardot alle prese con una famiglia ostile e arretrata. L'impressione finale dopo aver visto questo film è sempre la solita dopo aver visto film vecchi: perché prima c'erano sguardi così puri e veri? Adesso è tutto così finto. Peccato che questi "sguardi" non vengano preservati, anche materialmente: la copia proiettata era rovinatissima. Chissà cosa ha raccontato Gregoretti nel dibattito seguito, purtroppo io sono dovuto scappare: in un giorno particolare come questo (06/06/06), dove per l'occasione sembrava essere tornato l'inverno a Napoli, era d'obbligo vedere un film "satanico". Il film visto è El Dia Della Bestia (Spagna, 1995) dello spagnolo Alex de la Iglesia, a cui il Napoli Film Festival dedica un'ampia retrospettiva. In una Madrid allucinata e sanguinante è il giorno di Natale e secondo i calcoli di un prete studioso di teologia proprio in questo giorno nascerà l'Anticristo. Lui è deciso a trovarlo per poi ucciderlo, e per far ciò cerca di essere più cattivo possibile e le sue svariate malefatte si rivelano piuttosto divertenti. Ben presto per cercare il luogo dove deve nascere il demonio si uniranno a lui, con le buone o con le cattive, un appassionato di death metal obeso e un mago televisivo da strapazzo, mentre nel frattempo Madrid brucia messa a ferro e fuoco da un gruppo di fascisti decisi a ripulire la città. I nostri alfine riusciranno a invocare il demonio e anche a trovarlo e… Da segnalare la comparsata di una Maria Grazia Cucinotta del tutto incapace di essere anche minimamente sexy, che poi sarebbe il motivo per cui l'hanno ingaggiata e messa addirittura nei titoli di testa no? Divertentissimo invece Gianni Ippoliti nel ruolo di un produttore senza scrupoli. In definitiva questo film, nella sua estetica da horror b-movie, si rivela assai godibile, anche se forse è troppo lungo e la fine è un po' tirata via. Nel pomeriggio invece si torna al concorso sezione "EuroMed" con il film Ryna (Romania, 2005) di Ruxandra Zenide, un film che ancora una volta ci permette - come tutti quelli di questa sezione - di dare uno sguardo a terre che non sono poi così tanto lontane da noi. La terra di questo film si chiama Romania, dove vive una ragazza chiamata Ryna cresciuta e trattata come un ragazzo dal padre che non ha mai fatto mistero del fatto che avrebbe voluto un figlio maschio. Ma Ryna ormai ha sedici anni e, anche se il padre si ostina a tagliarle i capelli corti, sta diventando donna, così inizia a covare sentimenti di ribellione verso questo padre che pure ama tanto: continua a lavorare nell'officina/distributore di benzina con il padre, però di nascosto coltiva anche la propria femminilità e la passione della fotografia. Quello di Ryna è ancora un mondo analogico (la macchina fotografica a pellicola, il walkie-talkie al posto del cellulare) ma non è di questo che si lamenta, è dormire nella stessa stanza dei genitori che inizia a starle stretto, vuole andare via e un drammatico evento la porterà infine lontana da casa, verso la sua vita. Un film piccolo ma bello, proprio come la sua protagonista. Belle e significative anche le citazioni truffautiane (I 400 colpi, Jules et Jim). L'ultimo film della giornata è l'evento speciale U-Carmen eKhayelitsha (Sud-Africa, 2005) di Mark Dornford-May, ovvero la Carmen di George Bizet (basata sulla novella di Prosper Mérimée) calata - musiche, lingua e tutto il resto - in un sobborgo sud-africano, con tutto ciò che ne consegue. I colori dominanti di questo film sono il rosso degli abiti e della passione bruciante e il nero della pelle dei protagonisti e della morte inevitabile. Certo può apparire strano, se non straniante, ascoltare voci e musiche liriche in questo contesto così apparentemente lontano da ciò che probabilmente raccontava Bizet, ma forse che l'Amore non è presente ovunque, in ogni epoca e luogo? E allora è inutile farsi tante domande e operare tanti distinguo, il film - anche se può essere parecchio impegnativo da seguire, ma proprio come tutta l'Opera no? -  è bello e le canzoni (con testi adattati al contesto) e le musiche e tutto il resto anche. Questo è un film che coinvolge e mette gioia e tristezza insieme, proprio come l'Amore, proprio come dovrebbero fare tutti i bei film.

D'estate al cinema la felicità si serve fredda.

(07/06/2006)

La mia terza giornata al Napoli Film Festival si apre con un altro dei film in concorso, sempre sezione "EuroMed": Un'estate sul balcone (Germania, 2006) di Andreas Dresen, ovvero uno di quei piccoli gioiellini che ti ricordano di come non esista solo il cinema di Hollywood. La storia che questo film ci racconta è semplice, intima, proprio come la musica che l'accompagna, dolce e malinconica, composta dal musicista giocattolaio Pascal Comelade; il luogo è Berlino, ed è estate: due amiche trascorrono le calde giornate senza far quasi nulla, è così che va la (loro) vita. Nike, bionda e perizoma sempre in vista, si guadagna da vivere accudendo persone anziane la mattina, come se le mancassero dei genitori che non ha mai avuto, ma anche per tenere bene a mente che un giorno la sua bellezza sfiorirà; Katrin, più grande e insicura, è già mamma e passa da un colloquio di lavoro all'altro, affogando tristezza e frustrazione nell'alcol. L'estate continua a scorrere leggera, fino a quando non entra nella loro vita un uomo che le separa per un po'. Ma si ritornerà poi sul balcone, a parlare di niente… e così via. Un film bello, che fa scendere anche la lacrimuccia, perché racconta proprio come va la vita, una vita non è mai hollywoodiana. La giornata continua con un'altra pellicola del regista spagnolo de la Iglesia: La Comunidad (Spagna, 2000), protagonista della quale è una scatenatissima Carmen Maura alle prese con una valigia piena di soldi trovata per caso in un alquanto strano (per usare un eufemismo) condominio. I soldi erano di un vecchio che è morto chiuso in casa, un povero vecchio che non s'è riuscito a godere nemmeno una peseta di quei soldi, causa certi vicini avidi e cattivi (a dire poco). C'è del marcio nel condominio insomma, e non c'è certo bisogno che ce lo venga a dire un regista spagnolo: chi di noi non ha mai avuto un vicino rompipalle, se non addirittura perfido? In questo film tutto viene portato alle estreme conseguenze, e ogni condomino assume tratti diabolici e inquietanti. Ce la farà la nostra Carmen a uscirne sana e salva? Il film è godibile nel suo essere così grottesco, anche se a tratti un po' debole, comunque molto ben delineati tutti i personaggi tra cui spicca un cavaliere jedi finto tonto (attenti a lui!). Nel pomeriggio si continua sul grottesco, ma lievemente, e assisto al primo film (per me) di un altro regista a cui il Napoli Film Festival ha dedicato una retrospettiva: ovvero Mortacci (Italia, 1988) di Sergio Citti, il quale lavorò con l'indimenticato Pier Paolo Pasolini. Anche questo, come il film precedente (quello spagnolo), è un film corale, protagonisti certi morti che proprio non riescono ad andarsene nell'Aldilà. È che sono trattenuti qui sulla Terra dal ricordo di parenti e congiunti e così sono condannati a rimanere ancora qui; da quello che si vede e sente questi sono morti che hanno capito tutto della vita, e hanno imparato a prenderla con filosofia: che sia necessario morire allora, per capirla, questa vita? Non penso si debba arrivare a tanto, ma forse arrivare vicino alla morte certo aiuta… È quello che probabilmente penserebbe anche l'Ivan dell'ultimo film (altro gran gioiello) della giornata, sacerdote credente fino alla cocciutaggine. Il film in questione è Le mele di Adamo (Danimarca, 2005) di Anders Thomas Jensen, uno di quei film che le sale smontano troppo in fretta (altro che Sorrentino!) per accorgersene, ed è un peccato perché trattasi di un film davvero bello e intelligente (il che non guasta). Il film ci racconta di Adam, un neo-nazista spedito a fare lavori socialmente utili in una chiesa, sotto la supervisione di padre Ivan. Ivan è uno che ha parecchio sofferto nella vita, ma è solo perché il Diavolo ha voluto metterlo alla prova, così crede lui. Adam è cattivo e tenta in tutti i modi di farlo vacillare, lui non ci crede a queste cose, Dio non esiste. Le mele del titolo si riferiscono a quelle del melo orgoglio della chiesa, quelle con cui Adam si è impegnato a fare una torta di mele, ma Dio sarà d'accordo con il suo proposito? A vedere quello che succede pare proprio di no. Che fine ha fatto il Dio buono e caritatevole, pronto a perdonare tutto e tutti? Dio è cattivo? È quello che crede Adam (un nome scelto a caso?), ma non certo Ivan che arriva a negare la realtà pur di non mettere in dubbio la bontà di Dio. È stupidità, la sua? No, probabilmente solo ingenuo buon senso. Certo questo film non pretende di dare risposte importanti, eppure fa pensare, e anche tanto: cos'è meglio, vivere credendo in qualcosa e tentare di essere felici così, o non credere in nulla e lasciarsi dominare dal nichilismo più disperato? È più felice Ivan, o Adam? E gli altri protagonisti della storia? A suo modo questo film, una parabola metafisica e surreale e totalmente anti-politically correct (grazie a Dio!), qualche risposta però la dà, e sicuramente insegna che non esistono persone cattive ma solo circostanze, cattive. Amen, e così sia.

Un altro cinema è possibile, e pure un'altra vita.

(08/07/2006)

La quarta giornata del Napoli Film Festival la passo tutta nella sala quattro, cioè quella dove vengono proiettati i film in concorso (sezione "EuroMed", ormai dovreste averlo imparato), e i film che mi vedo sono proprio quattro. Si parte con Sottosopra (Repubblica Ceca, 2005) di Petr Zelenka, malincomico racconto ambientato in un uno di quei paesi dell'Est dove, caduta la dittatura comunista, i cittadini si sono ritrovati senza più punti fermi, in quella che sembra una realtà più surreale che altro. Protagonista di questo film è un ragazzo di trentatre anni e tutte le persone che gli girano intorno, Petr ha una vaga somiglianza con il grande Buster Keaton ma lui probabilmente non lo sa, anche se ha il suo poster in camera: il non-sorriso è proprio quello, e ciò che accade in questo film sembra proprio una di quelle comiche mute in cui era protagonista il mitico Buster: accadono cose assurde, ma alla fine nessuno si fa male. Petr è stato lasciato dalla ragazza, Jana, perché capita che le ragazze quando diventano donne si dimenticano del ragazzo che hanno amato una volta, eppure lui la ama ancora e fa di tutto per riaverla; poi c'è suo padre, ex-voce recitante di cinegiornali comunisti che rinasce modello e amante di una scultrice più giovane di lui; e poi sua madre, che diventa pazza a sentire tutto quello che di brutto accade nel mondo; e poi il capo di Petr, che ha stilato una lista di più pagine di tutti gli oggetti che gli ha tirato addosso la moglie e che adesso ama un manichino di plastica; infine ci sono i vicini di Petr che non riescono a fare l'amore se non vengono guardati da qualcuno, e indovinate un po' chi sarà pagato per guardarli? Un mondo di pazzi insomma, ma forse che il mondo non è proprio così? L'importante è restare uniti… nella pazzia. La mattinata continua poi con Memoria in catene (Marocco, 2005) di Jillali Ferhati, viaggio alla ricerca di una memoria perduta che ha per protagonisti due prigionieri appena rilasciati: un ragazzo, figlio di un attivista politico e pieno di ideali, e un uomo, più anziano e probabilmente un prigioniero politico, che è quello che ha perso (o ha voluto perdere) la memoria. Il compito che il direttore del carcere affida al ragazzo è quello di riportare a casa il vecchio, di fargli ritrovare la memoria, e il viaggio non sarà certo facile e lascerà un dolore profondo in ambedue i protagonisti. Questo è uno di quei film che il classico spettatore occidentale definirebbe noiosi e pesanti, ma quello che si dovrebbe fare è altro: cercare di capire che esiste anche un altro tipo di fare cinema e ci sono altri paesi al mondo, e ogni paese ha la sua storia da raccontare. Questo film racconta una storia, quella di un paese non libero e relative incarcerazioni di dissidenti, che sicuramente sarà molto sentita nel suo paese d'origine, uno spettatore occidentale dovrebbe solo cercare di capire e quindi avere rispetto. Nel pomeriggio si continua poi con un film turco, un film che se non è proprio dello stesso genere del film precedente però è similmente basato su un'altra concezione di fare cinema rispetto alla visione occidentale: il film è Mamma, ho paura (Turchia, 2004) di Reha Herdem. I protagonisti sono tanti, una famiglia allargata che vive nello stesso condominio e si aiuta, ride, piange e vive come può, tutti insieme. L'impressione che dà questo film è quella di non raccontare niente in particolare, ma piuttosto sembra che esso non voglia far altro che raccontare un pezzo di vita turca; anche se a scavare bene una storia c'è: anche qui c'è un "protagonista" che ha perso la memoria, un ragazzone che l'ha persa perché gli fa comodo così, e tutto (tutti) ruota(no) intorno a lui e la sua vicenda. Ecco allora la signora che ha per consigliere un macellaio, la ragazza messa incinta e quindi lasciata da un adultero, un bambino che ha paura della circoncisione, una ginnasta bella e piena di vita, un altro giovane uomo che è tanto impaurito dalla vita da bagnare ancora il letto ogni notte. Tutti i personaggi in questo film hanno paura di qualcosa, le loro sono paure infantili e perciò chiamano la mamma. Quello che questo film ci mostra, soprattutto, è come anche in questi paesi che molti considerano tanto lontani e arretrati ci possano essere persone non poi così tanto diverse da noi, perché alla fine la vita quella è, e il film questo ci vuole raccontare, attraverso piccoli proverbi e scenette anche surreali che, lo ripeto ancora una volta, al tipico spettatore occidentale potrebbero sembrare stupide e inutili, ma non sono altro che una forte celebrazione della bellezza della vita. Perché quindi non accettare, accogliere, anche questo tipo di cinema? La realtà non è sempre bianca o nera. La giornata si chiude infine con Sintonia (Slovenia, 2005) di Igor Sterk, altro film proveniente da quell'Est che oggigiorno cerca di trovare faticosamente una direzione. Il regista dipinge un minimo (poco più di un'ora) quadretto di un interno piccolo-borghese: un marito, una moglie, due figlie. Ognuno sembra solo e lontano dall'altro, ognuno sembra fare vita a sé: il marito tradisce la moglie e così fa lei, la figlia più grande si trova in quella età in cui ci si inizia ad allontanare dalla famiglia, forse l'unica a mantenere ancora unita la famiglia è proprio la figlia più piccola, pianista provetta, orgoglio e fonte di commozione di tutti. Il quadro dipinto è desolato e desolante, eppure non tutto è sempre perduto, e ricominciare non è poi così tanto difficile, sembra.

Così lontano, così vicino.

(09/06/2006)

La quinta giornata del Napoli Film Festival si rivela un po' fiacca, non solo perché la stanchezza inizia a farsi sentire ma anche perché i film visti (tranne uno, il secondo) non sono poi così tanto belli. Ma, al solito, andiamo con ordine. Il primo film visionato è quello della sezione studentesca ovvero "Parole di Cinema": dopo il forfait dato da Castellitto (a cui è dedicata un'altra retrospettiva, "Castellittò", composta dei soli film francesi interpretati dal nostro) ecco presentarsi all'appello (anticipato) Giuseppe Rocca con il suo Lontano in fondo agli occhi (Italia, 2000) vincitore del Premio Solinas di qualche anno fa (il titolo originale del soggetto era "Il bambino che morì per troppo amore", se ricordo bene). Il regista introduce il film dicendo che è un film che non ha né il sapore della Nutella né quello della Coca-Cola, né un americanata né un film commerciale insomma, e ci chiede di avere la pazienza di seguirlo con attenzione. Al centro del film c'è un bambino il cui padre lavora lontano e non riesce nemmeno a tornare a casa per Natale, il bambino è un po' triste per questo ma forse segretamente anche un po' felice, considerato il suo complesso di Edipo non risolto, come spiegherà dopo la proiezione il regista, il quale aggiungerà anche che questo film è una sorta di compendio di suoi ricordi personali, un film autobiografico che nasceva da esigenze e dolori personali (la morte della madre, l'abbattimento della casa natia). E il film è proprio questo, una serie di quadretti familiari, non c'è una storia precisa ma, appunto, vari ricordi: la scuola, la cameriera, le nonne, i cuginetti, le prime esperienze sessuali. La fotografia è molto calda e bella, qualche trovata autoriale è sparsa qua e là, estemporaneamente, tuttavia il film, seppur suggestivo, alla fine risulta un po' pesante, forse. Il secondo film della giornata sarebbe dovuto essere un altro del regista spagnolo de la Iglesia ma purtroppo la proiezione viene annullata, e così si opta per il film in concorso Verso l'Ovest (Bosnia Erzegovina/Croazia, 2005) di Ahmed Imamovic, un film che ci parla di quelle terre così vicine a noi raccontate da un certo Emir Kusturica, ma questo racconto non si svolge proprio alla stessa maniera però. Qui la guerra viene mostrata in tutta la sua durezza e pazzia e l'odio verso i musulmani in tutto il suo orrore e bestialità, ma il punto di vista del regista è ancora più particolare: egli ci narra la storia d'amore inter-razziale (uno è serbo, l'altro musulmano) di due omosessuali e il loro tentativo di fuggire verso ovest. Uno di loro, il più delicato, si fingerà donna per nascondere la sua circoncisione musulmana. Sulla via verso l'ovest i due si fermeranno nel villaggio natale del più grande, serbo, ed è qui che il regista mostrerà tutto il male della guerra… Peccato che la copia del film fosse danneggiata e non si sia potuto andare avanti fino alla fine del film, perché proprio questo è stato il film più bello della giornata. Il terzo film, Cartoni Animati (Italia, 1997), è un altro della retrospettiva dedicata a Sergio Citti, però il film in realtà è del fratello Franco (qui anche attore) e Sergio collabora solamente. Il protagonista di questo film è Fiorello, diciamo così, una strana figura di vagabondo che va in giro a regalare sogni (sotto forma di boccette colme di strani liquidi colorati) ai poveracci, perché nella vita è importante sognare; e il film va avanti così, mostrando di tanto in tanto diversi personaggi che vivono in una specie di comune hippie e relativi sogni, e soprattutto tornando continuamente alla strampalata storia di due sposi che non si capisce bene se sono morti o no. Il film è noioso da seguire e davvero sconclusionato, non c'è altro da dire. Prima della successiva proiezione ho un'ora libera e ne approfitto per vedere uno dei documentari in concorso per la sezione "Schermo Napoli": La città perfetta (Italia, 2006) di Francesco Patierno, il regista di Pater Familias. La città di cui ci parla Patierno è Seul, capitale della Corea del Sud, e questo documentario si rivela interessante soprattutto perché l'approccio è assai originale: il regista sceglie di raccontare la città attraverso non solo le riprese dal vero, ma anche attraverso un montaggio di scene tratte dai film coreani più famosi prodotti negli ultimi anni. E allora ecco scorrere le immagini di film come Old Boy e relativa trilogia intrecciate a interviste a registi come Kim Ki-duk, e poi parole di gente comune; tra le altre cose si apprende così che la Corea è uno dei paesi più all'avanguardia dal punto di vista informatico e addirittura è molto avanti nel campo della ricerca genetica. Il documentario si chiude con una fatidica domanda che rimbomba in testa: un giorno i Coreani riusciranno a clonare l'essere umano? L'ultimo film della giornata è Yolda (Turchia/Bulgaria, 2005) di Erden Kiral, un film che rientra nella retrospettiva dedicata al regista turco Ylmaz Güney; tuttavia questo film non è girato dal regista in questione ma da un suo allievo, come omaggio. È un film che mostra uno dei tanti trasferimenti da carcere a carcere a cui era sottoposto il regista turco, ed è un film lento anche se si svolge tutto sulla strada ("yolda" significa "sulla strada", appunto). A seguire la macchina dei poliziotti ci sono la moglie e l'allievo del regista, per sapere dove verrà portato il regista. Questo è un altro di quei film che ci ricorda come non sempre e comunque sia possibile esprimersi liberamente attraverso il cinema, e non solo. Ma non esiste nessun carcere che possa uccidere la forza sovversiva dei sogni, basta avere pazienza, questo il messaggio finale del film. Mai dare per scontata la Libertà.

Amore e Bellezza non sempre sono come appaiono.

(10/06/2006)

Niente matinée per la sesta giornata, la penultima, del Napoli Film Festival, ma solo due film, due film in concorso, sempre per la sezione "EuroMed", quelli che mi mancano. Il primo è quel Verso l'Ovest (Bosnia Erzegovina/Croazia, 2005) di Ahmed Imamovic la cui copia su dvd aveva dato non pochi problemi, ieri; ed è stato un bene recuperarlo in pellicola, perché è davvero un gran film, forse quello che meriterebbe la vittoria. Prodotto da Jeanne Moreau (la quale appare anche in un piccolo cameo) e dedicato a Sergio Leone (qualche citazione sparsa qua e là), il titolo (Go West) preso da una vecchia canzone dei Pet Shop Boys, questo film è una struggente storia d'amore e morte che ci racconta di una guerra accaduta l'altro ieri, non così tanto lontano dall'Italia. Questo film ci racconta di quella guerra che all'inizio degli anni '90 dilaniò e distrusse una terra dove fino a poco tempo prima avevano convissuto, più o meno pacificamente, serbi ortodossi e croati cattolici con musulmani. In particolare questo film racconta la storia di due omosessuali che tentano di sfuggire all'orrore andando verso il tanto sognato Ovest (l'Olanda dove la produzione d'armi è minima, quella di fiori massima), perché la felicità non può esistere laddove tutto è ridotto a maceria, fisica e spirituale. Questo è un film dolente, che riporta alla memoria fantasmi che chissà quando troveranno pace, forse mai; un film che insegna che l'unica consolazione, in quello che sembra essere un nuovo Medioevo dominato da insensatezza e magia nera, non può che provenire dalla Musica, dall'Arte… Ma basterà? Di tutt'altro tipo e tenore è invece l'ultimo film visto: Semen, una storia d'amore (Spagna, 2005) di Daniela Fejerman e Inés París, sicuramente il film più lieve e umoristico di questi giorni. Con un romanticismo goffo e delicato come Serafin, il protagonista del film, le due registe spagnole ci raccontano una fiaba assai moderna che tocca temi come inseminazione artificiale e coppie "alternative", dimostrando ancora una volta, come se ce ne fosse ancora bisogno, di come le cose siano molto più semplici di quanto appaiano, se di mezzo non ci si mette la politica o ancora peggio una certa morale (?!) religiosa, perché le persone sono semplici e vogliono solo vivere e amare, e non tutto può essere ridotto a formula scientifica o modulo burocratico o dogma etico. La storia è quella di Serafin, uno scienziato buffo come Mr. Bean che lavora in un laboratorio dove si pratica senza patemi né problemi l'inseminazione eterologa, che s'innamora di Ariadna, trapezista da circo che decide di avere un bambino senza papà; poi, attraverso vari scherzi del destino, la storia, girata con uno stile che a tratti ricorda Il favoloso mondo di Amelie, si evolverà inaspettatamente, e certo non è un caso che il circo dove lavora Ariadna si chiami Serendipity, parola coniata dallo scrittore Horace Walpole che sta a indicare quella facoltà secondo la quale uno si mette a cercare qualcosa ma per fortuna ne trova un'altra, anche migliore. Di più non posso dire della storia, rovinerei la sorpresa, sperando che comunque un giorno questa pellicola arrivi anche nella cattolicissima (ah ah ah) Italia. La giornata continua con un evento speciale della sezione "The Criterion Collection", ovvero Fellini's Homecoming (U.S.A., 2005) che non è altro che il making of di Amarcord, capolavoro del maestro riminese (ma ci volevano i mericani per farlo?). In questo piccolo documentario ritroviamo parecchi amici di Fellini che, sulla base di quel film di ricordi qual è appunto Amarcord, ricordano la vera infanzia di Federico e la vera Rimini di allora; così si scopre che Fellini ha sempre avuto un rapporto di amore/odio con la città natia, tanto è vero che quando decise di fare questo film non girò in luoghi reali, ma ricostruì completamente la "sua" Rimini negli studi di Cinecittà: solo così egli potè infatti dare sfogo alla sua sfrenata fantasia e inventare fatti e luoghi che diventarono poi talmente reali nella memoria comune che la gente iniziò a crederci veramente, e a ricordare fatti in realtà mai avvenuti, se non nella mente dell'immaginifico regista. La giornata si chiude infine con l'incontro ravvicinato con il regista piacentino Marco Bellocchio, sezione "Incontri Ravvicinati" appunto. L'incontro è interessante, certo, ma come tutti questi tipi d'incontro caratterizzati necessariamente dal poco tempo a disposizione e dallo scarso approfondimento, lascia un po' il tempo che trova, e alla fine si rivela una semplice chiacchierata fatta di aneddoti e qualche banalità. Apprendo così che Bellocchio inizia a studiare da attore (ha molto rispetto degli attori, sottolinea) e non da regista, ma poi per problemi di voce e altro decide di lasciar perdere, anche se la tentazione di recitare lui stesso nei suoi film qualche volta è affiorata di nuovo (come per l'Aldo Moro di Buongiorno, notte); e poi apprendo anche che per il ruolo da protagonista de I pugni in tasca si fece addirittura il nome di un giovane e ingenuo Gianni Morandi che rimase entusiasta del copione ma che dovette rifiutare costretto dal padre e dall'agente che credevano che quella scelta gli avrebbe rovinato la carriera (o sarebbe nato un nuovo Morandi?); Bellocchio s'infervora poi quando si passa a parlare di immagini e bellezza di queste, di forma e contenuto. Tutti possono fare film oggi, afferma Bellocchio, l'Italia non è più un popolo di poeti ma di cineasti, di questo Bellocchio è sicuro, tutti filmano. Ma poi chi ha le "immagini"? Verranno montate, curate, queste immagini? Diventeranno film? L'importante è che queste immagini non siano solo belle esteticamente, l'appassionato Bellocchio si scaglia contro lo stucchevole estetizzante, la cosa importante è che queste immagini abbiano qualcosa da dire, conclude.

Un finale molto horror e poco fantastico.

(11/06/2006)

Solo due film due per l'ultima giornata del Napoli Film Festival, la settima, due film da cui mi aspettavo comunque molto, e invece. Il primo appartiene alla sezione "Finestra sull'Oriente - Giappone" ed è un horror chiamato I 13 vicini (Giappone, 2005) di Yasuo Inoue, anche se io sospetto che, considerata la traduzione inglese e la trama, il titolo esatto e più sensato debba essere Il vicino dell'appartamento numero 13, o qualcosa del genere. Tratto da un manga di culto, questo film racconta la storia di Yuzo, un ragazzo che da piccolo fu maltrattato e picchiato dal bullo della scuola Akai ma adesso, ormai grande, è deciso ad avere vendetta (un tema che va di moda ultimamente); è come se fosse cresciuto un doppio dentro di lui, un doppio cattivo (qualcuno ha detto Dr. Jekyll e Mr. Hide?) il cui scopo è quello di uccidere Akai. L'atmosfera del film è tesa e alienante, e anche se qualche trovata particolare c'è (il racconto a cartoni animati, i flashback deliranti che ci mostrano l'interazione tra Yuzo e il suo doppio), questo horror giapponese si rivela proprio come tutti gli altri horror giapponesi che ho visto: per metà del tempo mi sono annoiato e per l'altra metà non ho capito quello che stava succedendo… E poi, diciamoci la verità, in questo film di horror ce n'è ben poco. Spero non arrivi mai in Italia, nemmeno d'estate. Il secondo film della (mia) giornata è Kontroll (Ungheria, 2003) di Nimrod Antal, per la sezione "Panorama EuroMed"; all'epoca dell'uscita nelle sale italiane ne avevo sentito un gran bene e anzi m'era pure dispiaciuto di essermelo perso, ma anche questo film alla fine s'è rivelato abbastanza deludente. L'idea di partenza è anche buona, ovvero girare un intero film tutto underground, in una metropolitana cioè, una metropolitana di un paese dell'est con tutti i personaggi e le relative storie che ne conseguono, ma il risultato è assai scarso. Certo si respira un atmosfera onirica tra il magico e il reale, ci sono dei bei personaggi (sia tra i controllori che tra i clienti della metro) che fanno sembrare Budapest una città di pazzi (ma attenzione al disclaimer posto a inizio film!), però tutta questa materia è gestita molto male, questo film sembra un mosaico i cui pezzi non vanno a incastrarsi bene l'uno con l'altro, ma anzi si allontanano entropicamente l'uno dall'altro, e in conclusione questo film si rivela irrisolto. È un peccato perché la materia di partenza avrebbe potuto rendere molto di più e qualche buona idea c'è, però tutto rimane così, sospeso e inconcluso, lasciando lo spettatore confuso e annoiato. E questo è.

THE END

Traccia bonus, inedita et incompiuta. (ovvero qualche film dall'anno scorso)

(09-11/06/2005)

(Prefazione minima: parlando in generale dei film, una cosa che mi ha colpito è che nel Concorso "Euromed", ovvero film arabi/egiziani/iraniani/albanesi/serbi/bosniaci, insomma "extracomunitari", come piace dire ad alcuni simpaticoni, c'era sempre quest'idea da cartolina dell'Italia come meta agognata e terra dei sogni… Ora io mi chiedo: questa povera gente che sogni potrà mai trovare qui, se sogni non ne sono rimasti neanche per noi? Vabbè, malinconia portami via.)

Giovedì 9 giugno 2005

Ore 16.00: This Is An Adventure (Making of The Life Aquatic) (USA 2005, 52 min./colore)

Arrivo di buon'ora (ma davvero?) per il mio primo giorno di festival soprattutto per questo documentario: il film in questione (Le avventure acquatiche di Steve Zissou) è uno dei più divertenti che mi sia capitato di vedere ultimamente. Ma purtroppo questo documentario è una mezza delusione. Troppo sfocato? Mancanza di sottotitoli in italiano? Chissà. Comunque l'ho visto pure già un po' iniziato.

Ore 17 (circa): Le formiche di Domenico Cantore (Italia 2004, 60 min./colore)

Ovvero quando ti vergogni di essere napoletano (in tutti i sensi). Eppure l'idea non è male: un piccolo nucleo di terroristi pianifica l'omicidio di un ingegnere implicato nella costruzione di un impianto per lo smaltimento dei rifiuti, così recita il catalogo. Peccato che il tutto sia girato come Un posto al sole in versione neomelodica. Insomma, il peggio del peggio. Sono così imbarazzato che me ne esco dopo dieci minuti.

Orario imprecisato: Guerre Stellari (l'ultimo capitolo, le info le conoscete tutti no?)

Entro giusto in tempo per rendermi conto che i polpettoni soap li sanno fare pure al di là dell'oceano (però sono più bravi), ed esco per avviarmi al prossimo film. Però mi becco cinque minuti di primo piano (gigantesco) della mia amata Natalie Portman al massimo del suo splendore. Mica fichi.

Ore 18.30: Formaggio e Marmellata di Branko Djuric (Slovenia 2003, 90 min./colore)

Il primo dei vari film dei nostri vicini di mare che mi capiterà di vedere in questi cinematograficamente lunghi giorni. Questi sono film che hanno un sapore diverso, lo sguardo è più puro, qualcuno direbbe più povero, io preferisco dire più sincero. Ricordiamoci del nostro neo-realismo. C'è una coppia, lui bosniaco, lei slovena, che deve mandare avanti la casa: lei si scopre incinta, lui è uno scansafatiche sempre in pigiama, lei torna dai genitori che non lo vedono di buon occhio, lui inizia a cercare lavoro. Si troverà immischiato in loschi affari di gente che specula sul sogno (di cui si parlava sopra) della povera gente di andare in Italia, coi soliti banditi "tarantiniani" (ormai un aggettivo a sé). Il regista all'inizio ci ha avvertito che questa è una storia che potrebbe succedere in qualunque sud del mondo. Ripeto, ricordiamoci del nostro neo-realismo. Commovente.

Venerdì 10 giugno 2005

Ore 16: Il volo di Theo Angelopoulos (Grecia 1986, 120 min./colore)

È il primo dei film che vedrò della retrospettiva dedicata al regista greco. Un film che parla di partenze o, meglio, fughe: un anziano insegnante che fugge dalla sua vita, una giovane che fugge da se stessa. Le loro strade s'incontrano e si farà un pezzetto di strada insieme… Ma partire è sempre un po' morire, è scontato dirlo.

Ore 18.30: Amo il cinema di Ossama Fawzi (Egitto 2004, 125 min./colore)

Sicuramente uno dei film più belli del festival, film autobiografico che racconta l'iniziazione cinefila di un ragazzino nell'Egitto degli anni '60. Un film corale (oltre al ragazzino ruolo predominante hanno il padre bigotto e la madre artista repressa, nonché i vari parenti) bellissimo ed emozionante che ricorda molto il Woody Allen di Radio Days, con il cinema al posto della radio però, ma anche un certo Francois Truffaut, per le varie e divertenti monellerie di Naeem, il ragazzino protagonista.

Ore 20.45: La mia vita a Garden State di Zach Braff (USA 2004, 109 min./colore)

Film neo-generazionali come Donnie Darko e Le regole dell'attrazione iniziano a fare i primi proseliti, e dal punto di vista delle storie e dal punto di vista delle soluzioni filmiche, e questo Garden State né è la dimostrazione lampante. Il film alla fine è carino, storia bella anche se scontata, qualche simpatica trovata e la piccola Natalie Portman nelle panni di una smorfiosetta è amabilissima come al solito, peccato che poi si scada troppo nel buonismo stile MTV.

Ore 22.30 End Of The Century: The Story Of Ramones di Jim Fields e Michael Gramaglia (USA 2003, 110 min./colore)

We Are A Happy Family, yeah, recitava il titolo di uno dei dischi dei grandi Ramones. Peccato che vedendo questo documentario (non film!) altro che happy family, qua pare si odiassero tutti: Dee Dee drogato ed egocentrico come non mai e Johnny il fascista che ruba la ragazza al sensibile Joey, il più dolce di tutti. Un documentario molto bello, a tratti commovente, perché alla fine questa è la storia di come un ragazzo timido e brutto, sofferente di sindrome ossessivo-compulsiva, riuscirà a diventare una grande rock'n'roll star. Sei il più grande di tutti Joey, rimarrai per sempre nei nostri cuori. Sul fatto che un dvd del 2003 ormai acquistabile in tutte le feltrinelli/fnac d'Italia venga spacciato per film in anteprima (!!!) meglio calare un velo pietoso. Peccato che l'affacendatissimo proiezionista non ci abbia fatto vedere anche i contenuti speciali. Gabba Gabba Hey!

Sabato 11 giugno 2005

Ore 12.30 (circa): Alta Tensione di Alexandre Aja (Francia 2003, 85 min./colore)

Qualcuno ha addirittura parlato di surrealismo e Buñuel per questo film, ma io non credo ci sia tanto da esaltarsi. Qualche buona scena sanguinolenta c'è pure (vedi il progressivo insanguinarsi dell'armadio a causa dell'omicidio che avviene fuori campo… davvero terrificante) e c'è anche parecchia sporcizia alla Texas Chainsaw Massacre, quanto basta, però l'impressione finale è che il tizio o abbia finito i soldi o a un certo punto, non sapendo come chiudere, abbia fatto finire il film nel modo più semplice (e stupido) possibile, e tanti saluti alle incongruenze (e non solo quelle finali: la tizia ha un lettore mp3 e non un cellulare per chiamare aiuto?!). Qualcuno obietterà che il genere horror non richiede coerenza e io sono pure d'accordo, però qui si raggiunge il colmo. Un'ultima cosa: tanti complimenti alla canzoncina italiana scelta… ottimo gusto davvero.

Ore 14.00: 9 Songs di Michael Winterbottom (Gran Bretagna 2004, 88 min./colore)

Un "film" che si potrebbe definire ridicolo se non fosse così noioso, algido, raggelato e raggelante. Il vero scandalo sta nel fatto che siamo costretti a vedere questo gran "capolavoro" annunciato su un dvx (questo ha mandato la casa di produzione… sarà legale?), per di più anche difettoso, altro che sesso esplicito. Un film che alla fine si riduce nel vedere questi due tizi (peccato mancassero anche i sottotitoli, sono sicuro della genialità delle loro conversazioni…) che o scopano o vanno ai concerti, ma il problema è che il film non regge né dal punto di vista sessuale (che palle! se uno vuole vedersi qualche buona scopata tanto vale fittarsi un pornazzo!) né dal punto di vista musicale (qualche cosa buona c'è pure, ma per la maggior parte è semplice mainstream). Da buttare, veramente. Credo che qui in Italia non lo distribuiranno mai e se i soliti intelligentoni diranno che è perché siamo bigotti, pazienza. Comunque per chi ci tiene a vederlo può sempre chiedere alla casa di produzione il dvx (magari non difettoso, ché purtroppo io mi so' perso qualche fantastica scopata…).

Ore 15 (circa): Danny The Dog di Louis Leterrier (Francia/Gran Bretagna/USA 2005, 103 min./colore)

Un gran bel film d'azione che non disdegna i (buoni) sentimenti però. La storia di un ragazzino rapito da piccolo («Bisogna prenderli da piccoli…», insegna il bastardo di turno) e allevato come un cane a difendere il padrone (il bastardo di cui sopra) non appena questi gli toglie il collare. Ma la musica salva («I sogni non mi sono mai piaciuti», ripete il solito bastardo), e il ragazzo rinasce alla vita grazie all'aiuto di un vecchio e di sua figlia che gli insegnano a vivere partendo dall'abc. Una favola moderna che acquista quel qualcosa in più grazie al magnifico Jet Li, un dolcissimo Buster Keaton delle arti marziali.

Ore 16.30: L'addormentato di Yasmine Kassari (Belgio 2004, 95 min./colore)

Un uomo deve partire alla volta di un paese lontano per poter tornare con quella dignità che nel suo paese di origine non gli è permessa, una donna deve addormentare il feto che porta in grembo nella speranza che il padre ritorni da suo figlio. L'emigrazione in questo film è una videocamera, un videoregistratore, una videocassetta… per mantenere un contatto.

Ore 23 (circa, visione casalinga) La scuola del grande maestro di Takis Proietti Rocchi (Italia 2005, 9 min./colore)

Come se non bastasse un'intera giornata al cinema, me ne torno a casa e mi sparo questo simpatico corto distribuito gratuitamente su dvd dal regista stesso (complimenti per lo spirito d'iniziativa!). Si tratta di uno strano meta-film (vincitore nel 2005 del primo DAMS Film Festival di Roma, tra l'altro) che racconta la storia di un regista che gira un film sulla storia del Grande Maestro (di arti marziali) e che deve vedersela con produttori rompiscatole. Girato in un giapponese inventato e con attori che indossano tutti buffe maschere di animali come se fosse la cosa più normale del mondo, questo corto si presenta fresco e simpatico e ricco di trovate originali. Davvero carino.

 
 
 
 
 
 
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